POESIA – Intervista a Francesca Bottari

di FRANCESCO BETTIN     La poesia “analfabeta” di Francesca: “Ho rinunciato a tutto per la scrittura, dovevo nutrirmi solo d’ amore e di bellezza”

 

La sua poesia abbraccia, letteralmente, più emozioni, le diffonde attraverso la parola, dolce o cruda che sia. Francesca Bottari nasce in Trentino, a Cles, nel 1984 e vive da sette anni a Bassano del Grappa. Laureata in Lingue e Istituzione Economiche e Giuridiche dell’Asia Orientale (curriculum cinese) a Venezia, ha conseguito un Master presso l’ISPI a Milano, vissuto e lavorato all’estero (Cina, Sud-est asiatico, Iran, Africa, Inghilterra) e, dopo aver chiuso definitivamente con il campo aziendale, ha seguito la sua più grande passione: la scrittura.  Dapprima si impegna in veste di sinologa come articolista e editorialista per il Corriere del Trentino e la testata Unimondo, in concomitanza a queste collaborazioni ne inizia altre due: una con l’Università degli Studi di Trento e l’altra con il RTFF (Religion Today Film Festival. Nel frattempo, viene inviata dalla Provincia Autonoma di Trento a fare alcuni reportage in campo sociale in Birmania, in Togo, a Lampedusa e in Germania. Ma la chiama fortemente la poesia, che è un’unica ragione di vita, intima e radicata da sempre. Per prepararsi emotivamente ad abbandonare tutto, lo fa anche fisicamente: nel 2013 vende e lascia ogni cosa che possiede per viaggiare da sola per il mondo per più di 7 mesi durante i quali, oltre a restare in silenzio in compagnia solo di uno zaino, da Trento arriva fino in Cina via terra. Un salto nel vuoto? Può darsi, ma il fatto è che Francesca lo sta tutt’ora facendo e, finalmente, sta trovando delle basi sulle quali appoggiare ogni tanto i piedi per potersi riposare dalla fatica del coraggio messo in campo: nel 2019 viene scelta per frequentare, come autrice pura, la scuola di Mogol (conosciuta in tutto il mondo come CET) dopo la quale esordisce con la sua prima raccolta poetica, “Si rialzeranno i salici” sostenuta dalla prefazione di Alfredo Rapetti Mogol il quale ha riconosciuto nel panorama culturale italiano, le parole di Francesca come “poesia”. Bottari è una poetessa che rifiuta alcune proposte editoriali per iniziare a donare i suoi versi, tutti, per mezzo dei social. Nel giro di due anni viene conosciuta da molti, fra questi anche da alcuni editori, i quali, interessati alla sua produzione poetica, le hanno proposto di pubblicare un libro, che esce a settembre 2022 per Bertoni Editore: “Guarderai il cielo, poesie analfabete per chi sa leggere il vento”. Di lei e della sua poesia ha così scritto ancora Alfredo Rapetti Mogol: “La poesia di Francesca Bottari è una poesia-aratro che scava come una ruspa d’oro nella profondità dell’anima. […] La sua è una poesia colma di rispetto, gentilezza, educazione, poesia che attraversa la vita e la tiene per mano in quel percorso di naturale e perfetta circolarità, stagione dopo stagione, verso dopo verso, così all’infinito.” Buongiorno Francesca, ben trovata. Tu scrivi che la poesia non va definita, “lasciate che sia”. Ognuno può essere allora la propria poesia, ritenersi poeta quando scrive qualcosa? La domanda è molto pertinente. No, non può essere tutto poesia, non basta tradurre un’emozione perché lo diventi. Nel campo poetico ci sono alcuni critici letterari e dei poeti stessi che hanno la presunzione di definire cosa sia, ma da quando esiste, la poesia è indefinibile, un po’ come la vita. Si può dire che arriva da un’intuizione, uno slancio interiore, come tutta l’arte. Intuizione che può essere tradotta in parole per mezzo di un mero esercizio di stile, cerebrale e linguistico, devoto sì alla metrica ma senza perdere di vista l’obiettivo, e in questo caso l’alfabeto diventa uno strumento divino in mano al poeta. Oppure, la materializzazione dell’intuizione può avvenire del tutto fuori dagli schemi, in un breve istante, senza rispettare i canoni linguistici, ma non per questo non può definirsi “poesia”, e in questo senso abbiamo grandi esempi. In questo caso il poeta è capace di ascoltare, di sentire, il suono silenzioso insito, e oserei dire primordiale, antes, della parola. Di ogni parola. Ecco, non esiste un solo “tipo” di poesia. Si può dire che ci sono diversi modi di fare poesia, forse tanti quanti sono i poeti. L’ermetismo, ad esempio, la complessità dell’uso di certi termini non può talvolta danneggiare la poesia? Secondo me niente danneggia una poesia quando questa è poesia: si può dire che, sia per comporre sia per comprendere, si mettono in moto due cervelli, quello della testa e quello della pancia. Il primo caso riguarda un approccio più cerebrale dove bisogna, per forze di cose, azionare anche la mente; il secondo, più emotivo, è in balìa di quella follia che abbiamo tutti, arginata dalla ragione ma, c’è da dire, che lasciarsitraghettare da essa tante volte fa paura, perché quel tipo di follia non ha regole, è paragonabile al cielo, a Dio, a un salto mortale da fermi, è pura coscienza, appunto. Un autore che scrive quello che sente ma che non è interessato a far arrivare a nessuno le sue composizioni, e tiene tutto per sè in un irrefrenabile narcisismo è un poeta lo stesso? Non ho gli strumenti per rispondere a questo, dovrei leggere l’autore. Ma è anche vero che un’opera d’arte dovrebbe arrivare a più persone, perché è così che il sentimento di cui il presunto autore scrive si risolve, trova pace. La poesia è sì dell’artista, ma poi diventa anche degli altri. Si parte dalla persona: quello che si sta scrivendo si è veramente compreso? Dall’ombra si è passati alla luce? Un bravo poeta ha detto che i poeti formano un firmamento: ci sono poeti che brillano più di altri. Quando ti sei accorta di essere predisposta, attratta dalla poesia? Ho sempre usato la scrittura, mi ricordo che a sette anni, a Natale, mi era stata regalata una macchina da scrivere e una scrivania dove mi sedevo e guardavo dalla finestra, ho amato quel regalo. Ho sempre scritto, me l’ha detto mia mamma. Ma non trovavo la chiave per aprire la mia porta, sebbene fin da bambina le poesie nel cassetto le avevo già. Crescendo, ho lavorato per il Corriere del Trentino, per altri giornali, per l’Università, per enti culturali interessanti, avevo una carriera che si stava imbarcando benissimo, ma mi sono accorta che correvo tutto il giorno, e non faceva per me. Così mi sono presa un anno sabbatico e da Trento sono arrivata via terra in Cina, ai miei ho detto di non preoccuparsi. Avevo proprio bisogno di stare su un treno per cinque giorni, e scrivere. Ho venduto tutto, per sette mesi sono stata da sola, avevo uno zaino con dentro l’essenziale, non parlavo quasi con nessuno. In questo silenzio quasi assoluto ho iniziato a credere in una vita fatta di poesia e non nei ritagli di tempo. Un percorso estremo, forse anche rischioso in un certo senso… Potevo perdermi, non era così difficile, restare in un monastero cercando il senso della vita, accettare lavori dove la vita era sicuramente più facile e leggera di quanto lo sia in Italia, ma di una cosa ero sicura: che in un circolo vizioso come quello di una vita frenetica non volevo stare, e qui non vedevo vie d’uscita. Così ho rinunciato a tutto, ma sono riuscita a mantenere il mio equilibrio, cosa molto importante. Non avevo paura di una svolta così. Avevo qualche testo sacro con me, dedicavo il mio tempo a leggere, ho trovato me stessa e la forza di ritornare e di dirmi «ora voglio fare questo, ci provo».  E ascoltandomi sempre di più è arrivato definitivo il canale della poesia. Un grande lavoro su te stessa. Solo quello, sì. Che ragazzina sei stata?  Mi è stato raccontato che fino ai tre anni vivevo in una bolla, stavo tanto da sola, giocavo da sola. Mi chiudevo in un mio mondo, sebbene non avessi avuto certo traumi. Anche crescendo sono rimasta timida, sentivo sempre il bisogno di stare da sola. Successivamente lo sport, facevo ciclismo agonistico, mi ha aiutato. Lì ho tirato fuori la mia arte di guerriera, tirato fuori la grinta, l’allenatore che ho avuto mi ha fatto uscire la parte maschile, che prima mi mancava, o mi spaventava. E a scuola? Non mi è mai piaciuta moltissimo, ma amavo le lingue, e mi iscrissi dopo la maturità a Lingue Orientali a Venezia. Durante la laurea feci un master in giornalismo in contesti di emergenza a Milano, sono andata a lavorare e a fare un anno d’università a Shanghai, e tantissimi altri corsi. Ho avuto diverse soddisfazioni, tra cui il corso di sceneggiatura con Giorgio Diritti (regista, tra l’altro di “Volevo nascondermi”, film sul pittore Ligabue, con Elio Germano, ndr). Qualcosa o qualcuno che ti ha influenzato? Il primo libro che ho letto, che è “Novecento” di Baricco, mi ha fatto sognare. Poi Herman Hesse, con la sua filosofia profonda, per come descrive il tempo e l’importanza di fermarsi per una maggiore profondità di sguardo. Goethe. Tra i contemporanei il poeta Franco Arminio, che mi ha risvegliato qualcosa di atavico, che latente dormiva dentro. Il fatto che un professore di un paesino della Campania abbia trovato questa fonte vitale e sia diventato uno dei maggiori poeti contemporanei certo dà fastidio, a molti, ma la poesia, anche quando nuota fuori dalle corsie conosciute da molti, può essere poesia. Quella di Franco Arminio resterà nel tempo. Certa poesia non viene al mondo non per rimanere in alcune stanze, ma per arrivare alla gente, e Franco Arminio ha aperto quella porta. La tua prima composizione la ricordi? Avevo sette anni, era sulla pace nel mondo. Me l’ha detto mia mamma, dicendomi che quei versi le fanno venire in mente quello che scrivo adesso. La prima poesia scritta da adulta invece è dedicata a mio figlio Thomas. Non lo posso giurare se sia proprio la prima, sicuramente una delle prime. Secondo te i poeti sono persone più attente allo scorrere del tempo, alla visione del mondo? Possono anche essere persone che guardano con diffidenze i propri simili, cioè tutti gli altri, forti della loro sensibilità più profonda? C’è il rischio, dal momento in cui l’ego, l’immagine che il poeta vuol dare di sé, dico anche a livello inconscio e non solo conscio, viene prima di ciò che scrive, allora fa del male a sè e agli altri. Bisogna riuscire a mettersi da parte, ed è veramente difficile perchè vuol dire rimanere soli, anche se soli lo siamo tutti alla fine. Bisogna lasciar spazio solo a quello che si scrive e, soprattutto, a fare quello che si scrive, Italo Calvino in questo senso si chiedeva “ma quello che scrivo se non diventa mera consapevolezza, cos’è?” Secondo me, se si riesce a fare questo, non ci si allontana dalle persone, ma si entra in loro. A me sta succedendo. L’ego tende a volere avere la verità in mano e a insegnarla. No, invece esistono tante verità quante persone respirano. Questa è la mia verità, poi se viene condivisa da altri ben venga, ma la mia verità non è la tua e per questo non ha la pretesa di diventare immortale. Sindrome di certi poeti. Infatti, alcuni hanno bisogno di questo, e che assieme alla poesia il loro nome diventi immortale, anche se mettendo da parte il proprio nome, svuotandosi, rimane più spazio per la poesia, per gli altri. Ma mettersi da parte comporta un grande costo personale. Siamo tutti uguali, in fondo, no? Compreso chi vive alla Casa Bianca, o chi dorme sotto i ponti dei Navigli. Alda Merini diceva che lei era una donna di tutti i giorni, e questa cosa tanti poeti, compresa me, devono, dobbiamo impararlo. Io ci sto lavorando. C’è un approccio ideale, un avvicinarsi alla poesia per chi ne è sempre stato fuori, intendo da lettore, uditore? Un profano come si può avvicinare? Le nuove generazioni stanno facendo tanto, ci sono vere e proprie jam session di poesia, vedi il fenomeno del Poetry Slam. Nelle nuove generazioni stanno cambiando le cose, c’è questo avvicinamento, questa nuova passione. Per il resto, dipende com’è improntata una serata di poesia, se si sta in un luogo chiuso, voglio dire accademico, allora è meglio avere un minimo di preparazione verso la stessa. Più che esercitare la metrica le tue poesie indicano la provenienza del cuore, del sentimento puro. Esattamente, della metrica non sono un’esperta e non mi riterrò mai tale, mentre il cuore traduce tutto il fermento che ho dentro attraverso il suono delle parole, quel ritmo che conoscono tutti perchè tutti ne sono in possesso, diciamo. Nella tua poetica c’è molto amore, a mio avviso. E’ un deterrente verso il mondo violento, complicato del quale facciamo parte? Per me, sì. La mia storia mi racconta che avevo bisogno di nutrirmi di bellezza, di trovare una necessità per sopravvivere, ed è quello che sto facendo. Vedo anche che inizio a disturbare un po’ pubblicando certe poesie, e questo è un segnale che qualcosa si muove. Se una poesia parla di un divorzio, come mi è capitato di scrivere parlando dei miei genitori, e del male che può fare, questo male ha radici nella risoluzione della sofferenza che esso ha procurato, e nonostante la poesia parli del dolore, perché negarlo? Soprattutto se la poesia lo esorcizza diventando un ponte verso la sponda dell’amore. Al di fuori di ciò che scrivi cos’è che ti emoziona? Mi emoziona tutto. Il chiacchierare come ora con te, i meli in fiore, una canzone. Non c’è una cosa che non mi emoziona. Anche nella guerra, perché so che ogni disastro nasconde una meraviglia futura, ne sono certa. Nella Bibbia c’è un bel passaggio che spiega come andare oltre le dualità e quando si incomincia a vedere che tutto ciò che è disastroso ha la nostra stessa radice, allora si intravede sempre e comunque meraviglia. Un’ultima cosa, Francesca. Che viaggio è per te la poesia? Che cosa rappresenta? Ho dentro una comprensione ecco che non la faccio scappare, la traduco, prendo una puntina e la attacco al muro. Come ho scritto un po’ di tempo fa, la poesia è un tavolo di lavoro dove trasformo ogni dolore in un oggetto d’amore. Un lavoro su te stessa, continuo. Certo. Con disciplina, imparata anche alla scuola di Mogol, dove se arrivavi in ritardo rischiavi di stare fuori dall’aula. L’arte non è perdizione ma tutt’altro, un lavoro quotidiano. Mogol stesso diceva che era lì non per formare l’artista, ma l’uomo. Caso mai l’artista verrà da sè. Insegnamenti anche questi.

 

Sotto, la copertina di GUARDERAI IL CIELO (Bertoni Editore), e un’altra bella immagine di Francesca Bottari

3 commenti su “POESIA – Intervista a Francesca Bottari”

  1. Nicoletta Giovanelli

    Ciao Francy. La Tua grande forza è l’umiltà.Siamo orgogliosi di avere in famiglia,una perla rara. Sono certa che non perderai questa luce, nemmeno una volta raggiunto il riconoscimento e il successo che ti meriti.
    Tua Sia.

  2. Ciao Francesca è un onore averti conosciuto , la tua intervista il modo di vedere il mondo e le tue poesie mi hanno profondamente toccato, un abbraccio Sergio

  3. Ciao Francesca, la tua intervista mi ha aperto la mente e il cuore oltre che ad emozionarmi. Ti leggo sui social e amo come te scrivere poesie, una passione che ho riscoperto quest’anno per caso anche in seguito ad una grande sofferenza. Ho avuto il coraggio come te di aprirmi finalmente e di mettere nero su bianco quello che ho dentro, voglio far parlare le emozioni. Ti ammiro e ti ringrazio per essere testimonianza di un riscatto morale e personale che non tutti riescono a maturare. In una società che va troppo veloce e alza sempre di più gli standard, tu hai saputo ascoltare la tua vera natura, la tua voce interiore diversificandoti, e nutrendola di arte e di bellezza. Le tue poesie mi trasmettono tanto oltre ad essere fonte di ispirazione e di riflessione. Spero un giorno non troppo lontano, di riuscire a trasmettere qualcosa di bello del mio universo anche io. Grazie un caro saluto.
    Licia

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