NOSTRA INTERVISTA – Giuseppe Cederna

di FRANCESCO BETTIN     Da “Mediterraneo” ad “Hammamet”, dal teatro di strada a “Tartufo” e “Zio Vanja”. E poi la poesia e il corpo…

 

Ha terminato da poco al Teatro Franco Parenti di Milano la ripresa di “Tartufo” di Moliére, con Vanessa Gravina e la regia di Roberto Valerio, poco prima era stato in scena nello “Zio Vanja” di Cechov, con Caterina Misasi, Pietro Bontempo e Mimosa Campironi, spettacoli che sanno affascinare soprattutto se adattati felicemente, come il regista Roberto Valerio ha fatto con entrambi. Giuseppe Cederna sta ora programmando, diciamo così, dei recital estivi, prima di un viaggio in Grecia (è un assiduo frequentatore di quel Paese, che ama molto). Cederna è a suo modo un attore speciale in quanto uomo e viaggiatore, e tutto si fonde in un’unico corpo, in un’unica mente. Figlio di un politico e giornalista ambientalista importante come Antonio Cederna, nipote di Camilla Cederna, giornalista anche lei di rilievo, Giuseppe Cederna ha scelto per sè il teatro fin da giovanissimo, iniziando con il mimo e il teatro di strada. Quella strada fatta per molti anni, con ottimi ruoli (tra gli altri, con Bellocchio, i fratelli Taviani, Scola, Giovanni Soldati) ma anche con qualche momento di difficoltà, cosa che riguarda peraltro chi fa il mestiere dell’attore, spesso. In questa intervista Giuseppe si racconta e si mostra com’è, una persona garbata e illuminata, un attore sincero, vero. Dal tuo mestiere d’attore, Giuseppe, cosa hai imparato più di tutto? Senz’altro il fatto di esser grato, sempre, per quello che mi capita. Ho imparato a non prendermela anche se qualche volta capitano dei problemi da risolvere anche perchè le difficoltà ci sono per tutti, bisogna stare calmi, attraversarle e superarle. Cosa hai sentito, da giovanissimo, per intraprendere una strada come questa? Avevi il sacro fuoco dell’attore, come si dice, dentro? Il teatro mi piaceva, ma più di tutto ero attratto dal mimo, dall’uso del corpo. In quegli anni, erano i Settanta, c’era il Terzo Teatro, andai a una riunione, a Bergamo, e ricordo che mi colpì molto la forza che il circo moderno, il mimo, potevano raccontare attraverso l’ironia, l’uso del corpo, appunto, lo sberleffo. Con queste cose si poteva raccontare tutto del mondo, e questa cosa mi rimase dentro, tanto da iniziare così…Se non sbaglio, erano gli anni degli Anfeclown, gruppo che fondasti a fine anni Settanta con Memo Dini. Proprio così, e di quelle origini sono molto fiero. Usavamo molto l’ironia assieme alla fisicità, che avevo già spiccata. Debuttai a Piazza Navona, in quel famoso teatro di strada così chiamato, avevo fatto una scuola d’improvvisazione molto intensa, di maschera, e attraverso il corpo e il suo movimento riuscivo in quelle esperienze a dire, a far arrivare. Con gli Anfeclown iniziai a girare l’Italia, ci ponevamo domande anche profonde facendo gli spettacoli, tipo cosa facciamo e chi siamo, realmente?  Eravamo puro istinto fisico ma anche idee, con i nostri primi spettacoli che erano una critica anche feroce ai miti e ai riti del post sessantotto. Eri giovanissimo, la tua famiglia cosa pensava del tuo percorso? I miei genitori non mi hanno mai combattuto, guardavano con curiosità e interesse cosa facevo. Infatti hanno capito che attraverso quel percorso trovavo il mio modo di essere un interprete, con una testa pensante, come mi piace dire. Come detto prima, sono fiero di quella strada iniziale percorsa che mi ha portato a questo, e sono contento anche della mia famiglia che mi ha sempre appoggiato. Possiamo affermare che il famoso sacro fuoco dell’arte ce l’avevi dentro da sempre? Quel sacro fuoco l’ho scoperto proprio attraverso l’uso del corpo, il mimo, ed è cosa che mi accompagna anche oggi in teatro negli spettacoli attuali. Per quella passione lasciai l’università. Quel corpo duttile mi porta a pensare anche a mio bisnonno Antonio, che era un alpinista e un esploratore di montagne, forse quei geni mi sono stati trasmessi passandomi la passione per il movimento. Ti definisci un attore atipico in un certo senso…Diciamo di sì, poi sono un indipendente e riesco a fare quello che mi piace, ed è una fortuna, anche perché faccio tante cose diverse tra loro. Mi piace ricordare un articolo che mio padre scrisse per un settimanale negli anni Ottanta, intitolato “Mio figlio clown”, dove confessava grande rispetto e stima per la mia scelta e per il fatto che avessi il coraggio di intraprendere una strada che era allora come oggi, per gli attori e per chi lavora nello spettacolo, difficile, precaria, rischiosa. Ho avuto anche fortuna, e bisogna averla, oltre al fatto di essere bravi, e a cercare di migliorarsi sempre. Ho iniziato a lavorare col Teatro dell’Elfo, nel “Sogno di una notte di mezza estate”. Era il 1982. E dopo arrivò anche il cinema, e i primi successi. All’inizio feci delle piccole parti, ma belle, come nell’ “Enrico IV” di Bellocchio, dove lavoravo a fianco di Mastroianni e di Claudia Cardinale, sono stato fortunato, appunto. Bisogna comunque accettare che non tutto può andar bene sempre, l’attore deve capirlo e non abbattersi. La mia svolta fu con “Amadeus”, testo di Schaffer, con regia di Mario Missiroli, con Umberto Orsini protagonista,  dal quale ho imparato molto, anche la disciplina del lavoro, a usare la voce, che è diventata un mio punto di forza. Quindi fu la volta del cinema d’autore...Già, “Marrakesh Express”, “Italia Germania 4-3” di Andrea Barzini, “Mediterraneo”. Cominciò per me un periodo più cinematografico, anche se fare il cinema dipende da tanti fattori. Ho avuto la fortuna di essere sempre un attore pensante, che cerca o magari scrive le sue storie e questo ha fatto sì che potessi cavarmela, nuotare da solo nel grande mare del teatro. Ho fatto decine di monologhi, racconti, ma anche molti classici, insomma, tante cose. Qualche momento con un po’ di buio? C’è stato, quello vale più o meno per tutti, prima o poi arriva. Era il 1996 e i film che avevo fatto non erano andati bene, il mio agente mi aveva lasciato bruscamente, e anche la mia compagna. C’era mio padre che stava morendo, e quella era certamente la cosa più importante. Sembrava tutto finito, fu un momento di crollo notevole, sono andato in analisi e grazie al fatto che non lavoravo più tanto ho cominciato a viaggiare e a scrivere. India, Himalaya, il mio sguardo tornava sotto forma di reportage, articoli, e riuscivo “a vedere” nuovi orizzonti, dandomi un grande senso di libertà. Ero sempre un attore ma non dipendevo più solo dagli altri, e avevo trovato una nuova vita attraverso altre esperienze. Pian piano son tornato a fare il teatro, poi il cinema, ma il viaggio è diventato il mio compagno di vita, oggi infatti riesco a raccontare quello che mi sta a cuore nel mondo. Naturalmente ho portato anche a teatro certi testi scritti. Un’altra mia grande passione poi è la poesia. La poesia? Si’, uno degli spettacoli a cui tengo tantissimo e che faccio in questi anni si chiama “Su questa terra”, ed è una performance in cammino con tre soste durante le quali racconto e leggo una trentina di frammenti letterari riflettendo sulla meraviglia e la complessità di essere, ospiti, sulla terra appunto. Una meditazione poetica che mi dà il senso di quello che sono forse ancor più di uno spettacolo teatrale, sento che in questo modo riesco a stabilire con il pubblico un contatto profondo, quasi immediato. E’ un bel momento introspettivo dove si parla della meraviglia, del dolore, della morte, che è una parte essenziale di tutti. E’ una grande liberazione condividere questi aspetti con altre persone attraverso la poesia, percepisco che la gente è riconoscente. Nella prossima stagione riprenderai “Storia di un corpo” di Daniel Pennac, per la regia di Giorgio Gallione. Di questo spettacolo che ci dici ? Che è un vero piacere portarlo sulla scena, sembra scritto proprio per me e la mia storia. C’è ironia, con protagonista un corpo che parte dai 12 anni e che scopre tutto, la paura, il coraggio, il sesso. Si affronta anche il passare del tempo, il corpo che si affatica sempre più, con le lezioni che questa cosa dà, e c’è una grande commozione finale. Il pubblico si riconosce come fosse con me sul palco, c’è una bella energia. Se lo vedrete prossimamente in qualche stagione teatrale venite a vederlo, venite a trovarmi. Anche in estate sarò in giro con dei miei recital di poesia, se vi capita di trovarmi da qualche parte vi aspetto.

 

 

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